Le ragioni e le fatiche del dialogo
“Prima di parlare di gioia del dialogo bisogna capire quali sono le ragioni e le fatiche” ha detto Paolo Ricca, teologo e pastore della Chiesa valdese, iniziando così la prima relazione della FestAC 2017. La prima ragione è di tipo antropologico: il dialogo fa parte dell’essere umano, l’uomo è fatto per parlare a un interlocutore che lo ascolta. Inoltre, ha la funzione di cambiare le persone: noi nasciamo per dialogare, ma cresciamo e diventiamo quello che siamo attraverso il dialogo. Il dialogo è anche uno strumento prezioso perché rivela i nostri limiti e ci permette di andare oltre noi stessi, ci permette di uscire. La seconda ragione è di tipo teologico: l’evangelista Giovanni nel Prologo racconta: «In principio era la Parola, la Parola era con Dio, la Parola era Dio». Il dialogo in Dio, dunque, è un “trialogo” iscritto nella natura di Dio. La fede, infatti, riconosce nella capacità di dialogare l’immagine e la somiglianza a Dio. La dialogicità intrinseca di Dio interna al suo essere, poi, si manifesta in tutta la sua storia raccontata nella Sacra Scrittura: tutti i patti che Dio ha stipulato col popolo, attraverso i profeti, e infine con Gesù sono tutte tappe del dialogo con l’uomo che Dio non ha mai interrotto. L’incarnazione è la Parola fatta carne in Gesù: è il momento chiave del dialogo Dia-logos. Ecco, dunque, la ragione ultima del dialogo: Gesù stesso, Parola diventata dialogo.
Tuttavia dialogare non significa solo parlare, ma ascoltare prima di parlare, entrare nel mondo dell’altro, un mondo sconosciuto o malconosciuto, un mondo in cui ci si sente stranieri, è per questo che il dialogo ha una funzione estraniante ed è faticoso perché ci si sente messi in discussione e spesso ci si accorge che un giudizio che si aveva in precedenza è un pre-giudizio o che le proprie posizioni sono formate da informazioni sbagliate, superficiali.
La gioia del dialogo
Dio non ascolta soltanto quando parliamo a Lui, ci ascolta sempre, anche quando dialoghiamo con gli altri perché anche Lui è un interlocutore di questo dialogo; ecco perché quando i nostri dialoghi con gli altri “sono graditi a Dio” si sperimenta la gioia del dialogo.
Se ci si pensa, finché non ci si parla si resta completamente estranei l’uno all’altra, anche se si è vicini fisicamente, perché non c’è incontro, è la parola scambiata che permette l’incontro: non voglio parlare di te senza di te, non sono io a definirti, ma sei tu. Anche in questo scambio di parole si sperimenta la gioia del dialogo, una cosa profondissima, che va fino alle radici dell’essere umano. Facendo riferimento all’enc. Ecclesiam Suam (1964) di papa Paolo VI (al n. 86), si è sottolineato come attraverso il dialogo si scoprono non solo elementi di verità nelle altrui posizioni, ma ci si rende conto che in una “dialettica di autentica sapienza” la propria verità si può ripensare, si può ri-dire in altro modo; ed è proprio in questa dinamica virtuosa che si scopre la gioia del dialogo.
Le parole spesso possono ferire come una spada, possono distruggere le relazioni anziché crearle; dare la parola all’altro, volerlo ascoltare prima di parlare, è il modo non violento per eccellenza di rapportarsi all’altro, è l’unico modo che abbiamo per risolvere pacificamente i conflitti, Dio non ci ha dato altra arma se non la parola. Ecco la ragione profonda per cui questa pratica del dialogo è fonte di gioia.
Ciò vale per qualsiasi tipo di dialogo, soprattutto per il dialogo intra-religioso (pensiamo al dialogo ecumenico) e inter-religioso (pensiamo al dialogo con l’ebraismo e l’Islam).
Dialogo con l’ISLAM
È facile ricadere in “pressapochismi”, “pre-giudizi” o “generalizzazioni” riguardo al tema del dialogo fra religioni, tuttavia come l’Islam anche il cristianesimo ha diverse declinazioni, ci sono diversi modi di essere cristiani come ci sono altrettanti modi di essere musulmani. “Analogamente l’Islam è un mondo pieno di mondi, una realtà complessa con varie sfaccettature” ha continuato don Cristiano Bettega, direttore dell’Ufficio CEI per l’ecumenismo e il dialogo; “tutto ciò che sa di pressapochismo non va d’accordo con nessuna religione”.
Oggi siamo di fronte a una sfida, citando le parole di papa Francesco durante il recente viaggio apostolico in Egitto: «Educare all’apertura rispettosa e al dialogo sincero con l’altro, riconoscendone i diritti e le libertà fondamentali, specialmente quella religiosa, costituisce la via migliore per edificare insieme il futuro, per essere costruttori di civiltà. Perché l’unica alternativa alla civiltà dell’incontro è la inciviltà dello scontro, non ce n’è un’altra».
La domanda fondamentale da porsi è: vogliamo continuare a combattere o desideriamo iniziare a dialogare?
Per una cultura del dialogo e dell’incontro
“Qui e ora viviamo in una realtà radicalmente scristianizzata” ha concluso il teologo Brunetto Salvarani “non perché siano venuti meno i segni della religione cattolica, ma perché non sappiamo cosa farcene di un Vangelo muto, che non ci mette in crisi, ridotto a una memoria evanescente”.
Questo lo dimostra anche il fatto che oggi nell’indagine del sociologo Franco Garelli “Piccoli atei crescono” su un campione di giovani tra i 18 e i 29 anni emerge che il 30% si dichiara ateo o agnostico o comunque indifferente alla religione.
I “senza religione” sono delle persone che ritengono di non aver bisogno di un riferimento religioso per dare senso alla propria vita e, rispetto al passato, non si percepiscono privati di qualcosa. Dall’indagine emerge, inoltre, che fra credenti e non credenti non esiste un atteggiamento “contro”, ma una reciproca tolleranza; viene riconosciuta a tutti una legittima cittadinanza. Questo è un tratto tipico della modernità avanzata: un’epoca in cui vengono a meno le certezze, aumentano le dinamiche e le influenze di altre culture e religioni, ci sono più intersezioni, un’epoca in cui si possono fare esperienze diverse.
In una delle ultime apparizioni pubbliche del filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman, il settembre scorso ad Assisi, in occasione dell’incontro interreligioso e interculturale per la pace promosso dalla Comunità di Sant’Egidio e al quale prese parte anche papa Francesco, Bauman sottolineò come: «Una cultura del dialogo» ha come obiettivo quello di «ricostruire la tessitura della società». Ciò significa «imparare a rispettare lo straniero, il migrante, persone che vale la pena ascoltare». «La guerra si sconfigge – aggiungeva − solo se diamo ai nostri figli una cultura capace di creare strategie per la vita, per l’inclusione». «L’acquisizione della cultura del dialogo – osservava Bauman − non è una strada facile da seguire, una scorciatoia. L’educazione è un processo di tempi lunghissimi, che necessita di pazienza, coerenza, pianificazione a lungo termine. Si tratta di una rivoluzione culturale rispetto al mondo in cui si invecchia e si muore prima ancora di crescere».
di Lucia Truzzi